Che ne sai dell’alito caldo che scende talvolta sulla mia terra? Io l’ho solo presagito ieri sul far della sera, un breve momento di attesa poi è iniziato. Ma tu non puoi sapere che lo scirocco è un confine nella nostra vita, un paletto da cui ripartire alla ricerca di una nuova frescura. Eri bellissima davanti al mare che ci vide diversi. Immobile il tuo corpo, l’abito unica parte viva su di te. Il vento caldo come sciroppo denso ci avvolgeva ed io sognai un’estate lontanissima e sospesa come questa quando ogni cosa doveva cominciare. Ma tu non sai, hai voluto dimenticare, io non potevo fissato dal vento in un sogno inutile ma necessario.Tu non hai bisogno di sapere che il tuo violino suonò per quest’ uomo un accordo lunghissimo che è rimasto su di me che sono una viola, compongo solo una biscroma al giorno. Troppo poco per difendersi dallo scirocco che avvolse le nostre vite. Tu sei altrove adesso, se una finestra dondola o sbatte la chiudi per non ricordare quella costa, il mare e il nostro silenzio.
sabato 25 febbraio 2017
LA SIGNORINA DIETRO I VETRI E IL TEMPO OBLIQUO
Castelvetrano, estate del 1966 -
“Trentacinque gradi! Santo Iddio, trentacinque. E sono le dieci e mezzo del mattino”- Mio zio tornò dallo stanzino sul retro con due bottiglie nelle mani. –“Ne faccio tanticchia anche a te?”- e me la cominciò a preparare senza aspettare la risposta. Era inutile, tanto gli rispondevo sempre sì: e lui me lo chiedeva ogni volta come se lo divertisse quel gioco ripetitivo delle parti. Una commedia in minore con attori non professionisti pronti a superare con slancio il senso del ridicolo per approdare sulla spiaggia di un affetto semplice e dichiarato. -“ Te ne metto poco…va bene?”- ne metteva sempre la stessa quantità, cioè molta – “Ci vuole la misura, bbeddu miu, la misura giusta in ogni cosa. Come quando preparo gli sviluppi per la camera oscura. Tieni!”- L’anice grigio-perla si diffondeva pian piano nel bicchiere d’acqua, sembrava un gioco di prestigio; chissà se lui s’era mai accorto di quanto anice puro questo ragazzino si scolava di nascosto? Era un gioco anche questo e la bottiglia d’anice durava sempre molto meno di quanto avrebbe dovuto ma si trattava di una questione tra me e Vicè, mio padre ne era fuori per fortuna d’entrambi.
” Ma tu vedi chistu chi faccia di sceccu c’ha avi. Brutto come la morte…intanto paga e quando si paga puoi essere comu ti piaci”- Mio zio ritoccava sia i negativi che i positivi, le fotografie di un tempo quelle fatte di misteri, di buio e di luce - “Insomma proprio come ti piace no, ma quasi…i denari figghiu miu fannu bbedda magari a soggira.”
Lui teneva un pennello piccolo con le setole finissime e a punta poggiato sul cavallo fra l’orecchio e la tempia; un altro, più grosso, a portata di mano sulla scrivania vicino ad un pezzo di vetro con un po’ d’inchiostro nero sciolto sopra. - “Guarda, vieni qua. Lo vedi questo? Niccolò Lentini si chiama, Cola u’ piritaru, ignorante e presuntuoso. Che fai? Ridi? Cola puzzolente e scimunito! Guardalo qui trasformato da viddanu a personaggio altolocato.”- Si alzò per andare a posare le bottiglie mentre dalla tenda fatta con cento fili di cannucce il caldo impietoso entrava ad ondate. - “ Si fanno conti sbagliati, sai. Qua in questo rettangolo sono lisci, perfetti e forse ci credono veramente di potersi camuffare. Fuori da qui_ e sventolava la foto_ sempre gli stessi sono.”_ Poi, guardando me che ridevo a labbra strette continuava - “Tutti uguali…tranne Lidia; lei è bella comunque. Bellissima. Te l’ho fatta vedere la foto sulla spiaggia l’anno scorso? No, non l’hai potuta vedere, nicu eri, ma ora te la mostro. Dov’è? Qua c’è una confusione terribile ed un caldo ancora più terribile. La cerco più tardi ma tu non fare finta di niente, ti credi che non lo so che rovisti qui dentro? Ma che cerchi? - Niente, e poi non cerco io, zio sei tu che ammucchi le cose senza pensarci.
Non potevo dirgli che speravo ogni volta di trovare altre foto, quelle proibite che secondo me lui doveva avere per forza e che io non riuscivo a trovare. “Minchiate! Quelli della tua età si sentono sperti, furbi, ma io lo so che tu rovisti e so anche quello che cerchi, bbeddu.”-
Saro, entrando, mi salvò da una situazione pesante, mi sentivo già rosso come uno scemo colto in flagrante: non ho mai saputo mentire bene e in quel caso mi sembrava anche inutile. -"Ciao Vicè"- e girò lo sguardo intorno, lo fermò su di me e mi fece un cenno come a dire, ah, ci sei pure tu? -"Che stai facendo? Ritocchi, sempre ritocchi. Troppo belli li fai_ ridendo posò le mani sulla scrivania - così belli che poi non li riconosce nessuno nelle carte d’identità. Qualche volta finisce che li arrestano e la colpa tua è, del cavaliere Montalto, l’uomo che fotografava il desiderio !.”
Lo disse allargando le braccia verso un immaginario pubblico. - “Ho capito, vinisti per sfottere”_ e mi guardò con l’aria complice che amavo tanto -” Ma l’amici sono amici anche se ignoranti e insensibili!”- Mi divertivo, era come stare a teatro: solo che questo era meno prevedibile e più eccitante. -”Che ci fai qui a quest’ora? Lo sai quanti gradi stamattina?” - “Trentacique, Vicè, trentacinque qua dentro all’ombra; fuori meglio non parlarne. Dovevo andare a Palermo ma non me la sono sentita, troppo caldo, pochi clienti…e troppi pensieri.”
Mio zio alzò lo sguardo, guardò Saro in viso per un istante, e continuò nel lavoro certosino di prima; poi dopo un altro colpo di nero sul negativo, disse in un sussurro -“ Pensieri? Tu pensiero sempre e solo uno ne hai avuto e quello si chiama in un modo vastaso” - ma era detto con una levità discreta che non gli conoscevo. Saro attento a me e all’aria immobile per la calura si toccava il mento ossuto con un movimento breve e ripetuto. -” Allora che fa, aspittamu una littira sul giornale? Ti vengo a trovare stanotte e me lo conti di nascosto dietro il muro del cinema all’aperto? Sariddu qual è il problema? Come li porta i capelli? Bionda o bruna?”- Io mi alzai con finta noncuranza: avevo capito che potevo ascoltare ma non dovevo darlo a vedere: mi accostai alla tenda sull’uscio. Gli occhi fuori, la testa dentro i segreti di un uomo.
- “ Vicè come te lo faccio capire? E’ bella, bellissima…e non fare gesti con la mano. Stavolta, te lo giuro, non esagero, è bbedda comu u’ suli” - “ Va bene, bella come il sole…quindi bionda e magari cu’ l’occhi azzurri?”- “ Sì, azzurri e grandi e sorridenti! La pelle è chiara, vellutata, sento che a toccarla resterei incantato…” - “Il fatto che non l’hai toccata ti ha salvato dal farti mandare dove merita un animale del tuo stampo: ci parlasti?”- Saro diventò improvvisamente reticente, strano, senza la possibilità di spiegare alcunché. Si avvicinò a mio zio e alzando appena la testa verso dietro emise quel leggero schiocco di lingua che in Sicilia significa no; quello schiocco lo ricorderò sempre, sembrava una linea decisa su un foglio bianco, un pontile da cui imbarcarsi per lidi sconosciuti. -” Non ci ho parlato, no, come faccio. M’imbarazza e poi, e poi secondo me straniera è! Se parla un’altra lingua che le dico?”- “Straniera? E dove l’hai conosciuta? Saro che ambiente stai frequentando? Non mi risulta che nel campo delle bibite gassate da noi lavorino fimmini bionde e straniere.” -” A Vita l’ho vista, conosciuta no, vista e rivista:”- “ A Vita? Saro che minchia stai dicendo, a Vita una donna bionda e chiara non esiste e se c’è non la vede nessuno“- ” Dì quello che vuoi ma lei c’è, io la vedo ogni volta che col furgoncino attraverso il paese: alla seconda curva prima della chiesa, lei è lì, dietro i vetri del negozio. Vicè secunnu mia mi aspetta!”
Mio zio si alzò, si tolse il pennello dall’orecchio e si avvicinò a me davanti alla tenda: avevo un aspetto strano, tra il pensieroso e l’ironico. -“ Allora, una bellissima ragazza bionda ti aspetta ogni volta che tu passi da Vita, un paese senza storia, quattro case e due negozi di cui uno di fotografia come il mio. E la picciotta per giunta è straniera. E tu che intenzioni hai? Ti fai sparare subito oppure….”
- Oppure Vicè, oppure. Intanto se ci vado in compagnia la cosa è meno pericolosa, meno impegnativa. La guardiamo, le sorridiamo, e da cosa nasce cosa.” - “Putissiro nascere anche due schioppettate invece di una ma ci vengo. Anzi ci veniamo, ci portiamo anche mio nipote. Che dici Enzuccio, andiamo a conoscere questa fata bionda? Dissi di sì con l’entusiasmo di un ragazzo cui viene proposto un giro del mondo su un veliero: partimmo due giorni dopo ed era sabato ed il caldo era identico.
Novantadue chilometri sulla vecchia statale che dalla costa sul mar d’Africa entrava mollemente dentro le colline asciutte della valle del Belice, le attraversava per giungere in vista del blu intenso del Tirreno, sotto la collina di Calatafimi. Giuseppe Garibaldi avrà sudato allo stesso modo, pensai, mentre la cinquecento scodinzolava lungo l’asfalto. Mi eccitava l’idea di fare un percorso tanto importante o meglio mi illudevo che fosse tale: il paesaggio al di là del finestrino diceva di una lontananza profonda, non parlava di dinamiche storiche ma d’immobilità millenarie. Garibaldi era passato di qua come un turista speciale, dopo di lui le acque del mar Rosso si erano richiuse alle sue spalle. Adesso c’era soltanto un cielo chiaro, privo di nuvole, colline di terra e ulivi, muli al sole e la massa bianca di un paese sotto il sole: Salemi. Quando lo indicai con la mano ai due adulti essi risero e Saro cominciò a declamare una litania che non avevo mai ascoltato: “ Quannu viri ‘na montagna di issu, chistu è Salemi e tu passaci a rassu” . Così il paese diventò in un attimo una specie di Sodoma, un luogo di perdizione circondato da un aura di perdizione densa; il mio aspetto evidentemente lasciò trapelare l’imbarazzo di un ragazzo che sognava invece muri bianchi su un cielo blu cobalto, magari appartato con una bellissima odalisca . E l’imbarazzo scatenò l’ilarità degli altri due e mi fece sentire uno scemo, uno che in quel posto non c’entrava nulla, un ospite ingombrante. ” Vicè guarda che u’picciutteddu male ci restò”- Mio zio girandosi mi guardò e mi mise la mano sotto il mento -” Enzo, non fare lo scimunito: sono vecchie storie sai. Queste terre di briganti erano e di schioppettate, che ti credevi? Puoi sognare nessuno te lo proibisce ma la vita, figghiu miu, la vita è un’altra cosa. E fammi una risata! Lo sapevi che lì, in alto, in cima al paese c’è un convento di frati?”- Io mi ero già dimenticato l’imbarazzo di prima- “Un bel convento, grande e ombroso…Pieno di cibarie, formaggi, salami, frutta…Con un enorme fico dentro il cortile… I fraticelli si sono dovuti adeguare ai tempi e alle schioppettate, sai, e così piano piano da timorati uomini di Dio diventarono fratacchioni, furbi e interessati alle cose di questa terra….” - “ Già, denari e fimmini; ora al posto del cordone penzolano altre cose!”- E scoppiarono a ridere e risi anch’io perché l’idea di questi fraticelli satiri e gaudenti sotto quel sole impietoso mi parve una frescura deliziosa: il confine tra piacere e peccato era diventato esile e facile da varcare, fu la prima volta in cui mi accorsi della relatività delle cose ed invece di provarne sgomento ne restai affascinato. I due adulti, risolto il problema infantile, continuarono a chiacchierare fra loro e non si accorsero dei movimenti dentro la mia testa, dei voli e delle fantasie che planavano su quella fetta di terra solitaria e antica: Gli adulti non si accorgono mai di nulla e noi cresciamo soli bevendo a lunghi sorsi l’esistenza che incontriamo vergine e lussuriosa.
Vita apparve improvvisa dopo una curva in cima ad una piatta collina circondata da campagne gialle e riarse. Entrammo in paese rallentando e non senza una certa tensione: al primo tornante mio zio lanciò un’occhiata interrogativa a cui Saro rispose con un breve diniego -” E’ l’altra curva…bbedda matri sugnu emozionato Vicè, devi guardare a destra, c’è un negozietto con una piccola vetrina. Bbedda matri sto sudando, e se non c’è?” C’era! Affacciata con metà del corpo e quasi tutto il viso sporgeva da una specie di colonna scura su cui appoggiava le mani. Ed era bellissima. Molto più bella di quanto io l’avessi immaginata. -” Ma che fai? Rallenta.”-” No, meglio andarcene, l’hai vista no? Andiamo e poi si vede.”- “ Che si vede e si vede, minchione, fermati e parcheggia là nello slargo e torniamo indietro.”
Tornammo lentamente presagendo lo spettacolo, gustandocelo prima ancora che si palesasse: davanti alla vetrina, circondati dalla curiosità di alcuni paesani e di molti ragazzini, ci fermammo e incrociammo gli occhi della donna che ancora ci sorrideva. E avrebbe sorriso in eterno. - “ Sariddu, l’hai guardata bene? Ti piace ancora? Ti vuoi presentare alla signorina?”- Saro allargò la bocca in un vuoto di vergogna e ridicolo incolmabili, le braccia penzoloni lungo il corpo magro. ” Minchia! Vicè, finta è! E’ di cartone, di cartone, una pubblicità.”
Dentro al piccolo bar si consumò definitivamente la farsa e l’uomo annegò il suo amore dentro un caffè nero e forte: io mi sentivo leggero come una pagliuzza mossa dal vento, mio zio parlottava fitto con lui ed erano tutte parole inutili. Usciti, dentro l’auto, dopo aver messo in moto, mentre scendevamo lungo le curve lentamente, Saro disse a se stesso: -” Allora mi sono innamorato di un pupa di cartuni? Una pupa di cartuni…” Lo disse piano per non svegliarsi dal sogno mentre ognuno di noi si crogiolava nei suoi. Due anni dopo, nel 68, un terremoto spazzò via tutta la valle del Belice: forse la ragazza bionda con la pelle vellutata si salvò come ogni illusione che si rispetti perché ci sarebbe sempre stato un uomo che, passando per caso, ci avrebbe creduto. E tanto bastava.
“Trentacinque gradi! Santo Iddio, trentacinque. E sono le dieci e mezzo del mattino”- Mio zio tornò dallo stanzino sul retro con due bottiglie nelle mani. –“Ne faccio tanticchia anche a te?”- e me la cominciò a preparare senza aspettare la risposta. Era inutile, tanto gli rispondevo sempre sì: e lui me lo chiedeva ogni volta come se lo divertisse quel gioco ripetitivo delle parti. Una commedia in minore con attori non professionisti pronti a superare con slancio il senso del ridicolo per approdare sulla spiaggia di un affetto semplice e dichiarato. -“ Te ne metto poco…va bene?”- ne metteva sempre la stessa quantità, cioè molta – “Ci vuole la misura, bbeddu miu, la misura giusta in ogni cosa. Come quando preparo gli sviluppi per la camera oscura. Tieni!”- L’anice grigio-perla si diffondeva pian piano nel bicchiere d’acqua, sembrava un gioco di prestigio; chissà se lui s’era mai accorto di quanto anice puro questo ragazzino si scolava di nascosto? Era un gioco anche questo e la bottiglia d’anice durava sempre molto meno di quanto avrebbe dovuto ma si trattava di una questione tra me e Vicè, mio padre ne era fuori per fortuna d’entrambi.
” Ma tu vedi chistu chi faccia di sceccu c’ha avi. Brutto come la morte…intanto paga e quando si paga puoi essere comu ti piaci”- Mio zio ritoccava sia i negativi che i positivi, le fotografie di un tempo quelle fatte di misteri, di buio e di luce - “Insomma proprio come ti piace no, ma quasi…i denari figghiu miu fannu bbedda magari a soggira.”
Lui teneva un pennello piccolo con le setole finissime e a punta poggiato sul cavallo fra l’orecchio e la tempia; un altro, più grosso, a portata di mano sulla scrivania vicino ad un pezzo di vetro con un po’ d’inchiostro nero sciolto sopra. - “Guarda, vieni qua. Lo vedi questo? Niccolò Lentini si chiama, Cola u’ piritaru, ignorante e presuntuoso. Che fai? Ridi? Cola puzzolente e scimunito! Guardalo qui trasformato da viddanu a personaggio altolocato.”- Si alzò per andare a posare le bottiglie mentre dalla tenda fatta con cento fili di cannucce il caldo impietoso entrava ad ondate. - “ Si fanno conti sbagliati, sai. Qua in questo rettangolo sono lisci, perfetti e forse ci credono veramente di potersi camuffare. Fuori da qui_ e sventolava la foto_ sempre gli stessi sono.”_ Poi, guardando me che ridevo a labbra strette continuava - “Tutti uguali…tranne Lidia; lei è bella comunque. Bellissima. Te l’ho fatta vedere la foto sulla spiaggia l’anno scorso? No, non l’hai potuta vedere, nicu eri, ma ora te la mostro. Dov’è? Qua c’è una confusione terribile ed un caldo ancora più terribile. La cerco più tardi ma tu non fare finta di niente, ti credi che non lo so che rovisti qui dentro? Ma che cerchi? - Niente, e poi non cerco io, zio sei tu che ammucchi le cose senza pensarci.
Non potevo dirgli che speravo ogni volta di trovare altre foto, quelle proibite che secondo me lui doveva avere per forza e che io non riuscivo a trovare. “Minchiate! Quelli della tua età si sentono sperti, furbi, ma io lo so che tu rovisti e so anche quello che cerchi, bbeddu.”-
Saro, entrando, mi salvò da una situazione pesante, mi sentivo già rosso come uno scemo colto in flagrante: non ho mai saputo mentire bene e in quel caso mi sembrava anche inutile. -"Ciao Vicè"- e girò lo sguardo intorno, lo fermò su di me e mi fece un cenno come a dire, ah, ci sei pure tu? -"Che stai facendo? Ritocchi, sempre ritocchi. Troppo belli li fai_ ridendo posò le mani sulla scrivania - così belli che poi non li riconosce nessuno nelle carte d’identità. Qualche volta finisce che li arrestano e la colpa tua è, del cavaliere Montalto, l’uomo che fotografava il desiderio !.”
Lo disse allargando le braccia verso un immaginario pubblico. - “Ho capito, vinisti per sfottere”_ e mi guardò con l’aria complice che amavo tanto -” Ma l’amici sono amici anche se ignoranti e insensibili!”- Mi divertivo, era come stare a teatro: solo che questo era meno prevedibile e più eccitante. -”Che ci fai qui a quest’ora? Lo sai quanti gradi stamattina?” - “Trentacique, Vicè, trentacinque qua dentro all’ombra; fuori meglio non parlarne. Dovevo andare a Palermo ma non me la sono sentita, troppo caldo, pochi clienti…e troppi pensieri.”
Mio zio alzò lo sguardo, guardò Saro in viso per un istante, e continuò nel lavoro certosino di prima; poi dopo un altro colpo di nero sul negativo, disse in un sussurro -“ Pensieri? Tu pensiero sempre e solo uno ne hai avuto e quello si chiama in un modo vastaso” - ma era detto con una levità discreta che non gli conoscevo. Saro attento a me e all’aria immobile per la calura si toccava il mento ossuto con un movimento breve e ripetuto. -” Allora che fa, aspittamu una littira sul giornale? Ti vengo a trovare stanotte e me lo conti di nascosto dietro il muro del cinema all’aperto? Sariddu qual è il problema? Come li porta i capelli? Bionda o bruna?”- Io mi alzai con finta noncuranza: avevo capito che potevo ascoltare ma non dovevo darlo a vedere: mi accostai alla tenda sull’uscio. Gli occhi fuori, la testa dentro i segreti di un uomo.
- “ Vicè come te lo faccio capire? E’ bella, bellissima…e non fare gesti con la mano. Stavolta, te lo giuro, non esagero, è bbedda comu u’ suli” - “ Va bene, bella come il sole…quindi bionda e magari cu’ l’occhi azzurri?”- “ Sì, azzurri e grandi e sorridenti! La pelle è chiara, vellutata, sento che a toccarla resterei incantato…” - “Il fatto che non l’hai toccata ti ha salvato dal farti mandare dove merita un animale del tuo stampo: ci parlasti?”- Saro diventò improvvisamente reticente, strano, senza la possibilità di spiegare alcunché. Si avvicinò a mio zio e alzando appena la testa verso dietro emise quel leggero schiocco di lingua che in Sicilia significa no; quello schiocco lo ricorderò sempre, sembrava una linea decisa su un foglio bianco, un pontile da cui imbarcarsi per lidi sconosciuti. -” Non ci ho parlato, no, come faccio. M’imbarazza e poi, e poi secondo me straniera è! Se parla un’altra lingua che le dico?”- “Straniera? E dove l’hai conosciuta? Saro che ambiente stai frequentando? Non mi risulta che nel campo delle bibite gassate da noi lavorino fimmini bionde e straniere.” -” A Vita l’ho vista, conosciuta no, vista e rivista:”- “ A Vita? Saro che minchia stai dicendo, a Vita una donna bionda e chiara non esiste e se c’è non la vede nessuno“- ” Dì quello che vuoi ma lei c’è, io la vedo ogni volta che col furgoncino attraverso il paese: alla seconda curva prima della chiesa, lei è lì, dietro i vetri del negozio. Vicè secunnu mia mi aspetta!”
Mio zio si alzò, si tolse il pennello dall’orecchio e si avvicinò a me davanti alla tenda: avevo un aspetto strano, tra il pensieroso e l’ironico. -“ Allora, una bellissima ragazza bionda ti aspetta ogni volta che tu passi da Vita, un paese senza storia, quattro case e due negozi di cui uno di fotografia come il mio. E la picciotta per giunta è straniera. E tu che intenzioni hai? Ti fai sparare subito oppure….”
- Oppure Vicè, oppure. Intanto se ci vado in compagnia la cosa è meno pericolosa, meno impegnativa. La guardiamo, le sorridiamo, e da cosa nasce cosa.” - “Putissiro nascere anche due schioppettate invece di una ma ci vengo. Anzi ci veniamo, ci portiamo anche mio nipote. Che dici Enzuccio, andiamo a conoscere questa fata bionda? Dissi di sì con l’entusiasmo di un ragazzo cui viene proposto un giro del mondo su un veliero: partimmo due giorni dopo ed era sabato ed il caldo era identico.
Novantadue chilometri sulla vecchia statale che dalla costa sul mar d’Africa entrava mollemente dentro le colline asciutte della valle del Belice, le attraversava per giungere in vista del blu intenso del Tirreno, sotto la collina di Calatafimi. Giuseppe Garibaldi avrà sudato allo stesso modo, pensai, mentre la cinquecento scodinzolava lungo l’asfalto. Mi eccitava l’idea di fare un percorso tanto importante o meglio mi illudevo che fosse tale: il paesaggio al di là del finestrino diceva di una lontananza profonda, non parlava di dinamiche storiche ma d’immobilità millenarie. Garibaldi era passato di qua come un turista speciale, dopo di lui le acque del mar Rosso si erano richiuse alle sue spalle. Adesso c’era soltanto un cielo chiaro, privo di nuvole, colline di terra e ulivi, muli al sole e la massa bianca di un paese sotto il sole: Salemi. Quando lo indicai con la mano ai due adulti essi risero e Saro cominciò a declamare una litania che non avevo mai ascoltato: “ Quannu viri ‘na montagna di issu, chistu è Salemi e tu passaci a rassu” . Così il paese diventò in un attimo una specie di Sodoma, un luogo di perdizione circondato da un aura di perdizione densa; il mio aspetto evidentemente lasciò trapelare l’imbarazzo di un ragazzo che sognava invece muri bianchi su un cielo blu cobalto, magari appartato con una bellissima odalisca . E l’imbarazzo scatenò l’ilarità degli altri due e mi fece sentire uno scemo, uno che in quel posto non c’entrava nulla, un ospite ingombrante. ” Vicè guarda che u’picciutteddu male ci restò”- Mio zio girandosi mi guardò e mi mise la mano sotto il mento -” Enzo, non fare lo scimunito: sono vecchie storie sai. Queste terre di briganti erano e di schioppettate, che ti credevi? Puoi sognare nessuno te lo proibisce ma la vita, figghiu miu, la vita è un’altra cosa. E fammi una risata! Lo sapevi che lì, in alto, in cima al paese c’è un convento di frati?”- Io mi ero già dimenticato l’imbarazzo di prima- “Un bel convento, grande e ombroso…Pieno di cibarie, formaggi, salami, frutta…Con un enorme fico dentro il cortile… I fraticelli si sono dovuti adeguare ai tempi e alle schioppettate, sai, e così piano piano da timorati uomini di Dio diventarono fratacchioni, furbi e interessati alle cose di questa terra….” - “ Già, denari e fimmini; ora al posto del cordone penzolano altre cose!”- E scoppiarono a ridere e risi anch’io perché l’idea di questi fraticelli satiri e gaudenti sotto quel sole impietoso mi parve una frescura deliziosa: il confine tra piacere e peccato era diventato esile e facile da varcare, fu la prima volta in cui mi accorsi della relatività delle cose ed invece di provarne sgomento ne restai affascinato. I due adulti, risolto il problema infantile, continuarono a chiacchierare fra loro e non si accorsero dei movimenti dentro la mia testa, dei voli e delle fantasie che planavano su quella fetta di terra solitaria e antica: Gli adulti non si accorgono mai di nulla e noi cresciamo soli bevendo a lunghi sorsi l’esistenza che incontriamo vergine e lussuriosa.
Vita apparve improvvisa dopo una curva in cima ad una piatta collina circondata da campagne gialle e riarse. Entrammo in paese rallentando e non senza una certa tensione: al primo tornante mio zio lanciò un’occhiata interrogativa a cui Saro rispose con un breve diniego -” E’ l’altra curva…bbedda matri sugnu emozionato Vicè, devi guardare a destra, c’è un negozietto con una piccola vetrina. Bbedda matri sto sudando, e se non c’è?” C’era! Affacciata con metà del corpo e quasi tutto il viso sporgeva da una specie di colonna scura su cui appoggiava le mani. Ed era bellissima. Molto più bella di quanto io l’avessi immaginata. -” Ma che fai? Rallenta.”-” No, meglio andarcene, l’hai vista no? Andiamo e poi si vede.”- “ Che si vede e si vede, minchione, fermati e parcheggia là nello slargo e torniamo indietro.”
Tornammo lentamente presagendo lo spettacolo, gustandocelo prima ancora che si palesasse: davanti alla vetrina, circondati dalla curiosità di alcuni paesani e di molti ragazzini, ci fermammo e incrociammo gli occhi della donna che ancora ci sorrideva. E avrebbe sorriso in eterno. - “ Sariddu, l’hai guardata bene? Ti piace ancora? Ti vuoi presentare alla signorina?”- Saro allargò la bocca in un vuoto di vergogna e ridicolo incolmabili, le braccia penzoloni lungo il corpo magro. ” Minchia! Vicè, finta è! E’ di cartone, di cartone, una pubblicità.”
Dentro al piccolo bar si consumò definitivamente la farsa e l’uomo annegò il suo amore dentro un caffè nero e forte: io mi sentivo leggero come una pagliuzza mossa dal vento, mio zio parlottava fitto con lui ed erano tutte parole inutili. Usciti, dentro l’auto, dopo aver messo in moto, mentre scendevamo lungo le curve lentamente, Saro disse a se stesso: -” Allora mi sono innamorato di un pupa di cartuni? Una pupa di cartuni…” Lo disse piano per non svegliarsi dal sogno mentre ognuno di noi si crogiolava nei suoi. Due anni dopo, nel 68, un terremoto spazzò via tutta la valle del Belice: forse la ragazza bionda con la pelle vellutata si salvò come ogni illusione che si rispetti perché ci sarebbe sempre stato un uomo che, passando per caso, ci avrebbe creduto. E tanto bastava.
venerdì 24 febbraio 2017
Dedicato a Adamo di compagnia
Scrivere ha mutato abito, il mezzo travisato è un tasto immemore del fluido e della carta. Colloquiale non ha spazi, smarriti senza alcuna propinquità nemmeno trasversale all’incipit cartaceo: perdersi esulta infine anelando a nuova monade, nemmeno Leibniz avrebbe osato tanto. Eppure la molteplicità resiste inversa ai ritmi decisivi di una nuova comprensione, soma dormiente di alterità non condivise perché non condivisibili. Eccepire adegua, insegna, scompone in soluzioni immaginarie (cit), stupisce ma non lascia traccia questa metafisica occulta. Cercare nuove misure aborrendo per vezzo le antiche contraddice la nescienza oblata di coscienza di sé e una nuova serie di pratiche apotropaiche appollaiate sul dorso del lettore smarriscono l’orizzonte previsto e mai arrivato. Infine un breve suono dallo spazio interno chiude l’ora di ricreazione: alla prossima lezione di autoreferenzialità.
Il blogger in questione è una scoperta di Marta: ne ha fatto un post che ha in coda una ottantina di commenti. Il post scritto da me come incipit, fuori dalle logiche che presiedono questo mio spazio, è un commento ma anche una critica feroce per dimostrare che basta una conoscenza universitaria di buon livello in lettere, un buon liceo alle spalle (il mio risale agli anni 60) e una certa confidenza nella scrittura per buttare giù in mezzora un nuovo corriere dello spirito. Però mi dispiace perchè Adamo se svolgesse la sua produzione con animo diverso forse potrebbe volare molto più in alto. La scrittura nasce dall’immaginazione di sè nel mondo, inizialmente è esigenza intima e personale ma credo che nessuno poi abbia rinunciato alla comunicazione della propria esistenza intellettuale. Scrivere è un atto di fede verso il mondo, puntualmente disatteso. Solo ad un blogger che non comunica la propria esistenza e chiude qualsiasi interloquio posso credere che scriva per se stesso, astenendomi da qualsiasi giudizio. L’analisi arriva solo a chi si espone, l’opinione nasce solo da chi si esprime pubblicamente ed è lì il cuore del problema: non comunicare facendo finta di farlo. Utilizzare il corpus scientiae acquisito come arma contundente, travalicare a bella posta i confini della comprensione (anche quella di elevato spessore) per dirsi esistenti nonostante il resto. Si chiama accademia e resta vacua anche se espressa in termini di assoluto valore, inaridisce nel chiuso della propria stanza pensante, anche noi orpelli esterni e plaudenti faremo la stessa fine. Ciao Adamo.
giovedì 23 febbraio 2017
Sono lì
Vorrei che la morte mi trovasse vivo - G. Ungaretti- Mi piace sapere di averli scritti io. Prendi un blogger, un foglio, metti in fila le parole. Non cercare altro: identità, curiosità immagini, supposizioni. Non chiedere nulla, se vuoi apri il blog e fermati- Leggi. Io sono lì, dentro quello che ho scritto. Non chiedo niente, non cerco niente. Sono solo un blogger. Ho scritto questi post in un altro tempo e li ho deposti qui e adesso. Questo è un vecchio modello di blog, a me piace tantissimo così: non c'è un blogroll per decisione personale, leggo i vostri commenti e posso venirvi a trovare. QUESTO NON SEMBRA UN BLOG, probabilmente non lo è. Le presentazioni, i commenti e tutto quell'insieme di cose che sembrano indispensabili ai social hanno devastato la mia permanenza sui blog, adesso qui resta solo la scrittura e il mio senso. Chiunque sia stato per qualche tempo in rete mi riconoscerà dai testi, io non mi sono dimenticato di me: sono e resto un solitario. Non posso fare altro che cercare interlocutori...che alla luce della mia esperienza dureranno poco vista la mia ormai scarsa propensione a commentare. Ci proverò lo stesso e poi sia quel che sia.
SCHIUMA DI AQUILONI
Schiuma d’aquiloni
è la traccia che resta.
Ho diviso la notte dal giorno,
ho creduto di poterlo tenere
con me.
Ho gridato a tutto il mondo
la mia conquista.
Non era vero, l’altro da me
mi ha beffato.
Doveva farlo e si è allontanato
alla nascita,
ora va e viene nel mio orizzonte
e non posso dire se sia mutato
e come.
Ansia talvolta, stupore sempre
ma l’amore non è finito:
è solo volato via per sfiorarmi,
sfigurarmi,
per sconfiggermi e tradirmi.
Gioca padrone con la libertà e la luce
poiché le comprende entrambe.
Qui sotto non sarebbe restato
a farsi maltrattare dal tempo.
A volte desidero che mi uccida
presto, sono stanco di privarmi
del suo abbraccio.
Lo cerco con lo sguardo
lo intravedo mentre simula
indifferenza.
Mi dice d’attendere pochi istanti:
appena trent’anni, un lieve gesto di vita…
ride mentre lo dice.
L’amore è volato via.
è la traccia che resta.
Ho diviso la notte dal giorno,
ho creduto di poterlo tenere
con me.
Ho gridato a tutto il mondo
la mia conquista.
Non era vero, l’altro da me
mi ha beffato.
Doveva farlo e si è allontanato
alla nascita,
ora va e viene nel mio orizzonte
e non posso dire se sia mutato
e come.
Ansia talvolta, stupore sempre
ma l’amore non è finito:
è solo volato via per sfiorarmi,
sfigurarmi,
per sconfiggermi e tradirmi.
Gioca padrone con la libertà e la luce
poiché le comprende entrambe.
Qui sotto non sarebbe restato
a farsi maltrattare dal tempo.
A volte desidero che mi uccida
presto, sono stanco di privarmi
del suo abbraccio.
Lo cerco con lo sguardo
lo intravedo mentre simula
indifferenza.
Mi dice d’attendere pochi istanti:
appena trent’anni, un lieve gesto di vita…
ride mentre lo dice.
L’amore è volato via.
mercoledì 22 febbraio 2017
A sud del sud
La Sicilia è fuori da tutto ciò che è Europa, progresso sociale ed economico, essa è esattamente al punto zero del 1860. Ferma ad un disperato bisogno di strutture, denaro e prospettive lavorative: un carro fatiscente e grottesco trainato da un nord sempre più stanco di averci a che fare. Ma noi abbiamo ancora l’orribile e subdola tendenza a considerare certe morti come un fatto DI PARTE, certe morti come la fisiologica conseguenza di un preciso percorso culturale e, spesso, il nostro cordoglio è finto, di circostanza, non ci appartiene perchè non è la nostra guerra o la nostra idea.
martedì 21 febbraio 2017
Diritto di cittadinanza
Se e quanto sono degno di stare qua non devo dirlo io: mi diverto ancora e la mia capacità di arrabbiarmi è immutata, per un blogger mi sembrano doti indispensabili. Vengo preso sempre più spesso da un senso di lontananza e malinconia di cui qui trapela solo una parte, i post migliori li sto pubblicando nascosti tra le pieghe di alcune risposte altri ancora sono chiusi nell’archivio di una vita che ho conservato per spenderla nella mia incipiente vecchiaia.
lunedì 20 febbraio 2017
UN GRANDE PECCATORE
Ho colpe pesanti: privilegio il rapporto con il sesso femminile e ciò mi penalizza, non c’era bisogno del web per averne conferma; non sono malleabile, meglio non lo ritengo necessario, quindi urto e ferisco. Cosa c’è di nuovo in tutto questo? C’è che il mio limite sostanziale e formale s’è scoperto limitato e inadeguato alle dinamiche dei blog il cui grado di ipocrisia e violenza, di stupidità spacciata per cultura, mi si è rivelato insostenibile. Da questo concetto ne discende naturalmente un altro: quello di una superbia intellettuale e “sociale” non gestibile senza una muraglia che la difenda da orde di barbari vaganti nella brughiera. Della blogosfera ho in generale una pessima opinione: scarsa sintassi, mediocre letteratura, inciviltà comunicativa a gogò: in pratica lo specchio della nostra società morente. Ma mi piace scrivere, ho eletto la scrittura a mio mezzo privilegiato di comunicazione fin da adolescente e scrivere su un blog è un grande stimolo per me; purtroppo non sono capace di seguire con costanza nessun blogger. In genere leggo con maggior interesse i blog molto distanti dal mio mondo e dalle mie idee: poi mi girano le scatole, dico la mia fuori dai denti e va tutto sottosopra. Le affermazioni iniziali di merito anche se sincere devono poi confrontarsi con il resto, qui il resto è il web e non somiglia neanche lontanamente ad un libro cartaceo. Se, come me, tu scrivi del tuo personale in pubblico ( e il personale quando è vero si sente a naso) nasce il problema di alienarsi dal personale nelle risposte e commentare semmai il nocciolo del discorso portandolo su un piano più generale. Sembra una cosa semplice ma non lo è: così i blog tendono inevitabilmente a scivolare verso la chat e da lì in poi il gioco è fatto soprattutto se il dialogo avviene tra una donna e un uomo. Entrambi sono irresistibilmente attratti dalle rispettive parti maschio-femmina e il blog con un certo tipo di comunicazione diventa sempre più lontano.
Di vita propria
Mi domando talvolta se un blog possa vivere di vita propria. Le cose scritte restano per definizione ma crescono? E se è così dove vanno e qual’è il loro destino? Un amore o una sconfitta raccontati e centellinati dentro le parole battute su una tastiera, cristallizzati in una dimensione a parte che non è quella del divenire quotidiano, emozioni così, cosa diventano poi negli occhi e nella mente di chi legge magari a distanza di molto tempo?
domenica 19 febbraio 2017
Apolide
Fin quando i miei testi raccontano di storie d’amore o di vita, di luoghi presenti nell’immaginario romantico di molti di voi, del Sud come anima e stimolo letterario, riesco a sedermi al tavolo; ma non deve trapelare niente dell’humus culturale che mi porto dentro perchè esso è assolutamente politicamente SCORRETTO! Sono un apolide è chiaramente riportato sulla mia carta d’identità: senza una vera patria riconoscibile, dedito alla giustificazione della teoria “un colpo al cerchio e uno alla botte”, pericoloso, inaffidabile, insostenibile. Solitario. Non mi piace, non mi piaccio ma la spiegazione del mio fallimento nella socializzazione virtuale sta lì e non c’è altro da aggiungere.
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