Dovevo capire che il temporale era in arrivo, aveva già cominciato a piovere. Io ho fatto una cosa come un’altra: ho preso l’ombrello e mi sono detto
– Fra un po’ spiove-
Sono uscito, fatta la spesa, il giornale, quattro passi, l’idea di andare allo stadio ( giocano in casa), casa mia, un primo e un secondo e poi a cascata le solite minchiate che un uomo fa nel pomeriggio per riempire un vuoto che non vuole vedere. Ci vediamo domani alle 10, perfetto.
Domani è domani, se chiudo gli occhi ti vedo benissimo, sento la tua pelle, mi guardo attorno e cammini dentro questa stanza. Buona sensazione Giulia, attraverso la porta rimasta aperta vedo una tua gonna lasciata sulla spalliera di una sedia: domani te la metti, ed io poi te la tolgo Giulia. Sì certo faccio così e il pensiero vola via in fretta e arriva ad altre mete. Bellissime, come te, come noi, una goduria infinita. Domenica sta svanendo in fretta e il tempo è un’opinione. Non è stata una bella giornata ieri. Avevo un’idea diversa, di quelle basate su niente: sono le migliori, spuntano così come un fungo dopo la pioggia e tu le guardi contento magari pensando che è merito tuo, di una tua ricerca; invece sei soltanto uno spettatore interessato. In macchina sotto casa tua ho cambiato venti volte stazione alla radio, ho fumato due sigarette, col finestrino aperto però che poi ti lamenti sempre – c’è puzza di fumo qui!-
In macchina ho atteso il miracolo di vederti scendere le scale e godere del tuo passo da femmina sui tacchi che mi fa morire ogni volta. Sai che faccio Giulia? Faccio finta di essere un altro e di stare lì per caso, magari aspettando la nonna o la zia, e tu scendi le scale ed io mi dico – ma guarda che pezzu di fimmina ma chi sarà, devo conoscerla, devo inventarmi qualcosa… ma questa è una storia di ieri ed io devo pensare al domani.
venerdì 4 novembre 2016
mercoledì 2 novembre 2016
Conclusione fisiologica
A quindici anni pensavo di vivere nel paese più bello e vario del mondo, ne ero orgoglioso. Ma non in senso lato, in senso culturale: poi è stato naturale sentirmi siciliano in Italia, che avrei dovuto fare? Ne avevo gli strumenti perché negarlo? E’ stata una via segnata ed è giunta alla sua conclusione fisiologica, a me piace così. Con la luce di sbieco sopra e sotto il blog.
domenica 30 ottobre 2016
COME UN RAGAZZO
Qui o altrove trascino sempre la mia insoddisfazione: non amo la rabbia ma faccio rabbia. Talvolta mi stanco ma non mi sono mai arreso, nemmeno alla sorpresa di ciò che provoco. Ho attraversato molti mari, reali o presunti: bagni indimenticabili e traversate tempestose; non l’ho deciso io, ho solo fatto da testimone ad epiloghi straordinari, cocci di esplosioni più o meno previste, qualche residuo è rimasto a galleggiare qua e là. Se ci penso vorrei un giorno o l’altro passare a raccoglierli tutti e dare loro il riposo o la vita che meritano. A furia di scoparmi l’esistenza mi sono innamorato di lei, innamorato sì, senza speranze e senza illusioni. Scrivere mi fa rabbia, pensare pure, amare è inutile, curvarsi sulle linee di una donna essenziale, farsi alitare sulla bocca il suo cervello esaltante…mi sono dovuto legare alla barca per non farmi uccidere dalle sirene anche se, in fondo, potrebbe essere la morte migliore. Questo non è un libro chiuso, la pagina che stai
leggendo è aperta, non si chiude mai nulla se resta l’eco dei tuoi orgasmi: c’è solo un tempo diverso e, talvolta, una spinta leggera come una carezza a farti scrivere di nuovo.
leggendo è aperta, non si chiude mai nulla se resta l’eco dei tuoi orgasmi: c’è solo un tempo diverso e, talvolta, una spinta leggera come una carezza a farti scrivere di nuovo.
Ho dato vita ad un’esigenza silenziosa.
Non riesco a dargli un nome
ha già un suono
e mille appigli scomodi
ma non ha un nome.
Chi ha pensato di arrivarci attraverso
il rumore di strilli inguinali
o il caos di abbracci posticci
mi cerca ancora.
Ma non riesco a dargli un nome.
Il luogo rarefatto in me
silenzioso per consuetudine e acceso
per indomito bisogno
si è fatto strada.
Così, qui, ora.
Grida a labbra chiuse
anche se io non ascoltassi come un ragazzo
che ha ancora tutto da sbagliare
Non riesco a dargli un nome
ha già un suono
e mille appigli scomodi
ma non ha un nome.
Chi ha pensato di arrivarci attraverso
il rumore di strilli inguinali
o il caos di abbracci posticci
mi cerca ancora.
Ma non riesco a dargli un nome.
Il luogo rarefatto in me
silenzioso per consuetudine e acceso
per indomito bisogno
si è fatto strada.
Così, qui, ora.
Grida a labbra chiuse
anche se io non ascoltassi come un ragazzo
che ha ancora tutto da sbagliare
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