A cosa diavolo serve un posto come questo?
Sono stanco di girare in tondo e controllare, adeguare per trovare comprensione (intelligere), smorzare per ammorbidire gli spigoli, presentarmi col cappello in mano e il freno tirato per scrivere sempre un po’ meno di quanto io sappia fare.
Sono nato alla pagina scritta una sera d’estate di 43 anni fa davanti al mare delle saline fra Nubia e Salina grande e la verità è che i ragazzi certe cose le sanno dire…le dimenticano dopo; col tempo fanno di tutto per dimenticarle. Era un tramonto vero, di quelli che i pittori arrossano di arancio e qualche sbuffo rosa e viola, di quelli che i poeti usano per arrampicarsi sull’Olimpo. Noi eravamo lì, seduti sul muretto, dando le spalle al campetto dove giocavano a tendersi le prime ombre. Il mare ha avuto un ultimo fremito di colori, poi si è spento in un altro blu, che non era ancora quello della sera.– E’ bello stare qui- lei ha detto ed io ho riso, perché i ragazzi certe cose non le sanno dire, ma lei quella volta aveva detto proprio così. Io ero felice abbastanza quanto basta. A casa la sera ero infuocato, febbricitante, e lo scrissi ed era tagliente e improvviso come il bacio che lei mi aveva dato.
Nascemmo alla vita nel rosso porpora di un giorno che muore, ci addormentammo dentro il blu della sera che incedeva sicura di sé. Cominciò con due piccole bugie:
– E’ qui che abiti allora?
– Sì solo d’estate però” Mentimmo per timidezza o perchè golosi del tempo che la menzogna ci regalava? Mi guardavi senza guardarmi
– Che fai adesso
– Arrivo fino alla torre…vieni anche tu.
E mi sembrò una proposta di un’audacia sconsiderata; la osservai sfrontatamente per darmi un tono e vedere l’effetto della mia proposta. Mi costò una fatica immane.
– Sei il figlio dei milanesi?
– Sì, ma i miei sono siciliani.
E mi incamminai, senza contare i passi, senza considerare i suoi…mi persi assieme a lei e ci regalammo un silenzio ininterrotto fino al muretto di pietra.
– Che studi?- per non chiedere l’età
– Entro al Ginnasio l’anno prossimo
– Io sono al terzo anno- le dissi mentendo per avere tempo, più tempo per la mia virilità confusa.
– Hai un accento strano, parlano tutti così da te?
Non fece nessun accenno alla mia bugia, vi passò sopra semplicemente come una cosa inutile da mettere da parte, ma sorrise. Mi rivelò il gioco delle futilità dette solo per gioco. Le parole: una stessa nota in chiave diversa. Non fu una menzogna e nemmeno una parziale verità. Fu un richiamo, solo una voce davanti al mare.
– Ti chiami Enzo, ho sentito ieri tua madre che ti chiamava.
– Hai fatto attenzione. Perché?
– Nuotavi bene ed eri solo. Non hai amici qui?
Lo presi per un buon inizio e pensai che il suo muoversi, il suo sedersi, il tono della sua voce fosse un bisbiglio che potevo avvertire soltanto io. Passammo un gran tempo di noi a raccontarci bugie per coprire la verità dei sensi; il giorno cadde quando le sfiorai le ginocchia, la mia vita cambiò quando le toccai i seni di ragazza. Mentire per non morire, per prolungare all’infinito la prima volta dell’amore, e tenersela per sé. Un bacio ansioso prima, lunghissimo dopo.
– Me ne dai un altro?”
– Sì, è stato bello.
– Quanti ne hai dati finora?
Non le dissi che era il primo. Non le dissi più nulla e mi feci portare via dal sogno. La notte, tardi, mi leccai la ferita calda di quelle labbra e sciolsi il tempo delle parole su una pagina: la prima. Di sera penso ogni tanto alla rincorsa affannosa e febbricitante di questa condivisione. Suona con un’ eco serena sulla nudità di questa solitudine; se me ne libero resto, oggi come ieri, nudo e vero.